Per una cultura cristiana
Studi di teologia
Nuova serie
Anno XIV 2002/1
N. 27
Introduzione
In diverse regioni del globo, la crescita degli evangelici si attesta su percentuali notevolissime. In qualche paese si registrano picchi cosi elevati che a realtà evangelica diventa una delle componenti più considerevoli de paesaggio civile. E tuttavia, quando si cerca di verificare quale sia il loro impatto a livello sociale e culturale, Si rimane un po’ sorpresi. Di essi non si sente molto parlare. Si fa forse qualche riferimento ad essi per qualche grossa manifestazione evangelistica o qualche scandalo, ma per ii resto si ha difficoltà a cogliere La loro influenza sul plano culturale. Una domanda nasce allora spontanea. E’ normale crescere quantitativamente, ma non influenzare l’ambiente in cui si vive? Si può considerare soddisfacente una presenza che non riesca ad essere qualitativamente rilevante?
II silenzio è spesso dovuto alla congiura dei media che s’intestardiscono a considerare notizia solo ciò the può suscitare emotività. Conosco un’anziana credente che ha già superato l’ottantina, che ha anche scritto più volte ad uno del salotti televisivi alla moda suggerendo d’invitare un uomo di cultura evangelico per avere qualche spunto originale su alcune questioni. Non ha avuto alcun seguito. Questo è un problema, ma non è l’unico. Sicuramente non ci si può nascondere dietro ad esso, perché ve ne sono altri.
L’assenza del credenti è molte volte anche dovuta ai credenti the non sanno fare i conti con la cultura. Qualcuno è talmente ottuso da bearsi all’idea di essere “estraneo” all’ambiente in cui vive pur approfittando dei tanti privilegi offerti dal contesto. Come se l’appartenenza alla chiesa militante equivalesse a quella trionfante. Ci si avvale con indifferenza dei vantaggi forniti dall’ambiente affermando comunque La sua condanna.
Questa volontà di sottrarsi all’impatto con La cultura è un segno preoccupante d’ignoranza, presunzione e, in definitiva, dell’esistenza di due plani di riflessione. Si tratta di un’apparente indifferenza, che non ha però molto di evangelico. Si tratta di una patologia vera e propria.
Altri ancora sono talvolta semplicemente impresentabili sul piano culturale, impresentabili da non meritare molta attenzione. In quanto insignificanti, marginali e subalterni alla cultura dominante, non meritano molta considerazione. La loro presenza svanirebbe dietro alle altre. Ma è lecito accontentarsi di un quadro del genere senza porsi interrogativi più profondi sulla realtà stessa delle fede?
Per quanto concerne l’Italia, si potrebbe forse affermare che la chiesa manifestava una maggiore identità culturale proprio quando era più marginalizzata e discriminata. Malgrado tutto esisteva un progetto globale di vita. Poteva essere un po’ rozzo, ma aveva una sua forza. Gli evangelici conducevano un’esistenza per certi versi difficili e anche tremenda, ma erano persone solide e determinate, per nulla compromesse. Si erano convinti che l’unica esistenza cristiana possibile fosse quella di vivere come umili impiegati della speranza e, per farlo, erano pronti ad andare contra mundum. Sapevano ciò che volevano e non corteggiavano chiunque fosse suscettibile d’offrire loro qualche privilegio.
Oggi riesce difficile scorgere quei lineamenti netti, massicci e sicuri. La gran parte di essi hanno gli occhi spenti e le guance cadenti. Si muovono con untuosa tranquillità nel mondo di tutti. Senza sussulti e senza sogni. L’impressione è che molte delle attività evangeliche non valichino qualche centinaio o migliaio di persone e non abbiano un vero impatto culturale. Ci si può rallegrare di ciò? Che ne è della signoria del Signore che si confessa?
La storia del movimento evangelico in Italia non ha consentito una riflessione sufficientemente radicale sulla questione. Per molto tempo, troppo, è stata in dubbio la sopravvivenza stessa del movimento e si può capire perché essa sia stata sostanzialmente estranea alla sensibilità dei più. Come per la chiesa primitiva, la distanza dalla cultura era anche uno dei mezzi più efficaci per proteggersi. Era forse un metodo grossolano, ma possedeva una sua rispettabilità. Oggi, però, gran parte del mondo evangelico italiano appare culturalmente subalterno a quel the esisteva prima delta conversione al cristianesimo. Si era laici, si rimane sostanzialmente laici; se si era cattolici, si rimane sostanzialmente tali. Detta in questi termini La cosa può dare fastidio, ma è difficile dire il contrario. L’annuncio evangelico ha lambito solo di striscio i mondi culturali con cui è venuto in contatto. Ciò significa che non c’è stata un’opera di inculturazione della fede abbastanza profonda e duratura. Ma se non si raggiunge la cultura, non si tocca veramente la persona nella sua interezza e questo può spiegare perché certe persone rimangano sostanzialmente divise. Anziché sentirsi parte di un progetto integrale, si accontentano di un impatto molto superficiale.
Questo fascicolo vuole prendere in considerazione questo risvolto della testimonianza evangelica. Studi di teologia ha già di mostrato quanto sia interessata al tema e ha già cercato d’interagire con questioni all’ordine del giorno per offrire una prospettiva evangelica. Questa è però un’occasione per interrogarsi in maniera più esplicita. I cambiamenti culturali in atto impongono con rinnovato vigore la questione della cultura. I riferimenti classici della fede stanno subendo spostamenti non piccoli e, davanti alla crescente impressione d’incertezza, vale la pena chiedersi quale sia la vocazione cristiana.
La cultura costituisce un fattore di modellamento de persona molto importante. E’ quest’infrastruttura che fa filtrare e depositare i valori che si hanno, quella che fissa e radica la fede secondo un certo tipo di linguaggio. Come tale è un modo di pensare e vivere che investe tutti gli aspetti dell’esistenza e cioè la conoscenza, l’arte, l’etica, il costume. Ma in una società Sempre più preoccupata del presente, il bisogno di un vero progetto per il futuro rimane disatteso.
C’è sete di chi sappia progettare il futuro, mentre molti “intellettuali” hanno ormai un profilo talmente decadente da dover cercare sostegno nell’avallo della chiesa cattolica. Anche questo è un frutto della postmodernità. La mediocrità delle idee, la caduta delle ideologie, la scomparsa delle utopie, spingono a cercare nella Chiesa cattolica qualche mito di ripiego o qualche maldestra legittimazione. Questi tentativi non pagano. La crisi del tempo ha un carattere squisitamente spirituale e ha, nel contempo, inevitabili ricadute sul plano culturale.
Gli evangelici hanno forse qualcosa da offrire che non è semplice ovvietà. In questo mondo stanco, essi hanno la possibilità di offrire un progetto che merita d’essere ascoltato, qualcosa cui si potrebbe una volta tanto cedere la parola e con cui varrebbe la pena instaurare un dialogo.
La rivista cambia veste, non linea. Siamo grati a Giuseppe De Chirico che ha realizzato il nuovo logo dell’Istituto IFED. E’ bello sotto lineare la serietà e la freschezza del servizio coniugando rigore e rinnovamento. Si tratta di una sfida nel senso più ricco del termine.
Questo numero segna anche tin felice passaggio di mano. La direzione del rivista passa al Prof. Leonardo De Chirico. Si tratta di tin avvicendamento che contribuirà ad illustrare la ricchezza del la visione evangelica che contraddistingue il nostro Istituto. Auguro al Prof. De Chirico di provare la stessa gioia e passione che mi hanno accompagnato in questi venticinque anni di servizio. Questi anni hanno fatto pane di un progetto ricco di stimoli che piacerebbe pensare che i lettori continueranno a sostenere anche la nuova direzione.
Pietro Bolognesi
Sommario
Articoli
Paul Schrotenboer, “Una prospettiva cristiana della cultura”
Pietro Bolognesi, “Mandato culturale e mandato missionario”
Forum
Daniele Garrone e Leonardo De Chirico, “Sulla cultura evangelica in Italia”
Studi critici
Valerio Bernardi, “Vangelo, cultura e globalizzazione”
Leonardo De Chirico, “Teologia evangelica e cultura postmoderna”
Sussidi
“Questionario”